In questi mesi il dibattito fra chi si prende cura dei cani e chi si occupa di legislazione è tornato centrale quando in Senato è stata depositata una proposta di legge che introduce il patentino per alcune “tipologie di cani”. L’idea è di garantire una maggiore sicurezza pubblica e un miglior benessere degli animali, ma i dettagli del testo mostrano diversi punti di discordia. Lo schema prevede infatti una lista specifica di soggetti – non di razza ufficiale, privi di pedigree – a cui si applicano regole restrittive che coinvolgono i proprietari e alla quale sarebbe destinato un percorso formativo e un test di affidabilità da superare insieme al proprio cane. Una misura pensata per evitare gestioni sbagliate e abbandoni, ma che già suscita in tanti perplessità sul reale impatto e sulle conseguenze che potrebbe avere.
Un aspetto che sfugge a chi vive in città riguarda proprio la distinzione tra cani che hanno un quadro genealogico ufficiale e quelli che ne sono privi. La proposta assegna due pesi e due misure: i proprietari di cani iscritti nel Libro Origini, dotati di pedigree, sono esentati dall’obbligo del patentino, mentre per tutti gli altri scatta l’obbligo di formazione e test. Questo meccanismo porta alla luce un dubbio importante: perché un animale certificato sarebbe automaticamente più equilibrato e affidabile? Ancora più problematico è che si presume che solo il proprietario senza patentino possa gestire male o abbandonare un cane, mentre chi possiede un animale “di razza” è implicitamente considerato competente. La logica geneaologica viene quindi utilizzata come garanzia di affidabilità, un criterio che non tiene conto delle tante variabili che riguardano l’ambiente, la cura e l’educazione dell’animale.
Il patentino e il test: un obbligo che divide
Per chi ha un cane appartenente alle cosiddette tipologie di razze senza pedigree, la nuova legge prevede un percorso formativo obbligatorio e il superamento di un test teorico-pratico chiamato “Cae 1”. Questo esame, organizzato dall’Ente Nazionale della Cinofilia Italiana (E.N.C.I.), dovrebbe certificare la capacità del cane e del conduttore di convivere serenamente in ambienti urbani senza rappresentare un rischio per la comunità. Lo scopo è chiaro: garantire che il binomio cane-proprietario sia in grado di gestire situazioni quotidiane evitando comportamenti aggressivi o pericolosi.

Ma le critiche riguardano proprio la selettività della norma. Chi possiede cani con pedigree ne è escluso, senza alcuna verifica obbligatoria, mentre altri animali simili, anche appartenenti alla stessa razza senza documentazione, devono sottostare a rigide valutazioni. Un dettaglio che molti sottovalutano è che questa distinzione potrebbe portare a una divisione sociale fra proprietari, con esiti poco chiari su come lo Stato intende realmente intervenire per migliorare la convivenza cittadina con gli animali.
Inoltre, la normativa prevede un “divieto di cessione” per i cani appartenenti a queste “tipologie di razze”, un punto poco definito e che potrebbe avere effetti molto limitanti per chi cerca di trovare casa a un animale senza pedigree. Dietro queste barriere, chi si occupa di canili e accalappiamenti vede il rischio di un aumento dei cani marginalizzati, con meno possibilità di adozione e più difficoltà a garantire un futuro dignitoso a questi animali.
Chi resta fuori dalla tutela e cosa rischiano
Il sistema della “save list” per alcuni cani senza pedigree sembra mettere ai margini una fetta consistente di animali spesso già vulnerabili. I cosiddetti “cani di serie B”, quelli che vivono nei canili o che provengono da incroci non certificati, potrebbero subire conseguenze negative proprio a causa delle nuove regole. Se gli obblighi appesantiranno i proprietari, le adozioni rischiano di calare ulteriormente. Dietro le sbarre di canili sovraffollati, molti di questi animali potrebbero quindi restare dimenticati più a lungo.
Non è da sottovalutare che il meccanismo preveda un controllo più severo solo per alcuni soggetti, senza peraltro chiarire chi e come dovrebbe eventualmente intervenire nel caso di trasgressioni o incapacità di gestire il cane. Quello che emerge è una confusione su chi la legge intende veramente tutelare: è l’incolumità pubblica, il benessere degli animali o forse altro ancora? Un fenomeno che in molti notano solo d’inverno nelle grandi città diventa così un nodo da sciogliere con molta cura per non rischiare di aumentare le disparità fra animali e proprietari.
In diversi contesti italiani, dove il randagismo è meno presente, e in cui le politiche di gestione sono già complesse, questa proposta potrebbe introdurre complicazioni ulteriori senza reali vantaggi per la società
